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2022-07-01 18:41:56 By : Ms. Albee Tan

A molte persone sarà capitato di sentirsi dire che la stagione estiva in Italia è un’ottima occasione di farsi le ossa dal punto di vista lavorativo e guadagnare qualcosa mentre si è in pausa da scuola o dall’università.

Del resto, l’idea di tirare su qualche soldo a fronte di un impegno tutto sommato contenuto è molto allettante, no? Peccato che non sia così: chiunque abbia fatto la stagione estiva sa che la realtà è molto diversa, e spesso e volentieri è fatta di turni massacranti, paghe da fame, assenza di diritti e molestie (sia verbali che fisiche).

Nonostante ciò, praticamente all’inizio di ogni estate i giornali si riempiono delle lamentele di imprenditori e addetti del settore per la mancanza di personale, condite dalle accuse contro il reddito di cittadinanza e la presunta nullafacenza dei giovani. I dati ufficiali dicono però altro: l’INPS ha registrato nell’estate 2021 un aumento significativo delle assunzioni stagionali.

Il punto è che si tratta di “un problema complesso, ma si finisce ogni volta a semplificarlo con tanta demagogia”, mi spiega via mail Giovanni Cafagna dell’Associazione nazionale lavoratori stagionali, che aggiunge: “non si parla mai di un calo demografico strutturale, inoltre dal 2015 è stato dimezzato il sussidio di disoccupazione, che non garantisce più una copertura economica adeguata agli stagionali anche nei mesi di inattività. Pertanto tanti professionisti con esperienza pluriennale hanno cercato altre strade lavorative. Provare ad allungare le stagioni turistiche e ripristinare l’indennità di disoccupazione ai livelli precedenti aiuterebbe davvero a risolvere questo problema.”

Cafagna mi fa notare che malgrado le lamentele, gli imprenditori non sembrano disposti ad attirare il personale con degli stipendi migliori: “continuano a restare poco competitivi, ho fatto un sondaggio interno tra i miei iscritti e quest’anno solo il 25 percento ha ottenuto un aumento, il 20 percento l’ha chiesto ma gli è stato rifiutato e il 65 percento non ha avuto neanche il coraggio di chiederlo.”

Ho chiesto a quattro persone con lavori stagionali alle spalle di raccontarmi le loro storie, alcune recenti e altre più lontane nel tempo.

Negli ultimi quattro anni ho fatto la stagione estiva in alcuni paesini sul lago di Bolsena, durante la pausa dell’università. Ho lavorato in tre posti diversi, prima come barista e poi come cameriera, ma le condizioni erano pessime ovunque. 

Il problema principale sono i turni infiniti, da un minimo di dieci a 16 ore al giorno. I weekend e la settimana di Ferragosto sono da incubo, mi è capitato di staccare anche alle tre del mattino e riprendere a lavorare dopo cinque ore. A volte a fine turno mi addormentavo sul sedile non appena mi sedevo in macchina. Una notte mentre tornavo a casa mi venne un colpo di sonno, per fortuna non successe niente perché crollai a peso morto sul volante e la cintura, stringendomi, mi svegliò di colpo. Dopo quell’esperienza smisi di guidare e chiesi al mio ex ragazzo di venire a prendermi a fine turno.

Facevo la cameriera stagionale per mettere da parte dei soldi e pagarmi un master ma alla fine ci ho rinunciato, non volevo più sopportare condizioni lavorative simili.

Solitamente prendevo cinque o sei euro all'ora, ma il mio contratto era per meno di tre ore al giorno. L'anno scorso ho trovato un ristorante con orari più umani e uno stipendio più alto, ma non avevo un contratto e l’ambiente di lavoro era tossico: il marito della proprietaria era molesto con tutte le cameriere, mentre la proprietaria non si faceva problemi a insultarci anche davanti ai clienti.

I ritmi erano fisicamente intensi: tutto il personale era costantemente sotto stress e affaticato, a volte qualcuno cedeva dal punto di vista fisico con crampi alle gambe, o mentalmente con pianti nascosti in bagno. A fine estate mi presi una tendinite e la proprietaria mi disse: "non hai il contratto quindi non hai la malattia, se vuoi i soldi lavori, se vuoi riposarti stai a casa.” 

Prima del Covid non era semplicissimo trovare un lavoro stagionale, mentre dopo la pandemia mi è capitato più volte di ricevere offerte anche mentre portavo a spasso il cane. Ma per quello che vedo e sento gli stipendi, gli orari e gli ambienti di lavoro sono rimasti quelli di prima. 

Facevo la cameriera stagionale per mettere da parte dei soldi e pagarmi un master, ma alla fine ci ho rinunciato, non volevo più sopportare condizioni lavorative simili. A malincuore, ora faccio un lavoro completamente diverso dal mio percorso di studi.

Ho lavorato come animatore per due estati consecutive intorno al 2008 in un campeggio sul Lago Maggiore e in un hotel a cinque stelle a Lucca, la prima volta fresco di diploma e la seconda al termine del primo anno di università. 

Si lavorava sette giorni su sette, il secondo anno venne annunciata una mezza giornata di riposo a testa che funzionò le prime due settimane, poi per i restanti due mesi non venne mai più neanche nominata.

Solo un ventenne alle prime esperienze lavorative riuscirebbe a reggere quei ritmi: si inizia alle otto del mattino con una riunione sulla giornata, dopodiché si è attivi con le varie attività per i turisti fino a tarda serata, a quel punto si fa una riunione di fine giornata e partono le prove per lo spettacolo della settimana o del mese, prove che possono durare anche fino alle due del mattino. Le pause pranzo venivano condivise con i clienti, ragion per cui dovevi mantenere una verve “cazzara” e di fatto era come se fossi in servizio. 

Dopo quasi due mesi a quei ritmi finsi di avere una febbre per poter riposare almeno una giornata; il capo animatore cercò di essere comprensivo e mi disse che potevo prendermi la mattinata, ma che in pieno agosto non avrebbe potuto concedermi di più. 

Le cifre erano ridicole, un mese di stipendio netto era 500 o 600 euro in totale. Il primo anno ci scalarono dallo stipendio anche le bibite che prendevamo al bar del villaggio turistico. Qualche anno fa c’era più accettazione di queste dinamiche, sacrificarsi tanto e guadagnare poco era considerata la norma. “Fai un’esperienza e ti diverti,” così ci veniva venduto il lavoro, come se ciò giustificasse tre mesi di sfruttamento.

La mia prima stagione risale ormai al 2013, avevo 18 anni e una voglia matta di crescere professionalmente e umanamente, oltre all'effettivo bisogno di lavorare, essendo nata in una famiglia che non era né stabile né ricca.

Frequentavo l'istituto alberghiero ed erano obbligatori dei tirocini curriculari; alcuni davano anche la possibilità di continuare a lavorare nella struttura per un altro paio di mesi, ed è quello che ho fatto nella reception di un villaggio turistico a San Leonardo di Cutro, in Calabria. Arrivai a inizio giugno insieme a delle compagne di classe e iniziammo sin da subito con turni che sulla carta erano di otto ore ma che potevano tranquillamente diventare anche dodici. Teoricamente si aveva un giorno libero alla settimana, praticamente arrivava ogni dieci o 15 giorni. Vitto e alloggio erano inclusi, dormivamo in quattro in una stanza in cui c’era spazio per due letti a castello e poco altro. 

In quanto tirocinio curriculare il primo mese non era pagato, e si sapeva—quello che non sapevamo era che per luglio e agosto non avremmo avuto nessun tipo di contratto o assicurazione, inoltre vista la scarsa trasparenza dei responsabili del villaggio non avevamo idea di quanto avremmo guadagnato. 

Per due mesi, lavorando anche 70 ore a settimana, prendemmo la bellezza di 900 euro in nero, circa 1,80 euro l'ora. Mia madre ha lavorato per vent’anni facendo stagioni ed era abituata a certi tipi di trattamento, in un meccanismo psicologico un po’ distorto era fiera che li accettassi pur di raggiungere un po' di indipendenza. 

Se c’è una cosa che ho imparato da quella stagione è proprio come non si dovrebbe lavorare.

Tra colleghi c’era sintonia ed eravamo tutti amici, ma non si parlava né di soldi né di condizioni lavorative. Era come se tutti sapessero cosa c’era di sbagliato ma nessuno avesse la forza o l'idea di parlarne apertamente. 

Mi restano degli ottimi ricordi dei clienti, ho anche avuto modo di stabilire alcune amicizie che poi sono durate negli anni. Per via dei miei studi ho sempre saputo che avrei dovuto lavorare quando gli altri facevano festa: mi sta bene, ma solo se si viene retribuiti equamente e vengono offerte condizioni dignitose. Se c’è una cosa che ho imparato da quella stagione è proprio come non si dovrebbe lavorare.

Ho iniziato a lavorare con le stagioni estive a 18 anni, sono sardo e nell’isola è uno sbocco occupazionale importante. Ho iniziato in cucina, poi come cameriere di sala e ora sono chef de rang. Alterno le stagioni estive in Sardegna, l’ultima l’ho fatta a San Teodoro, a quelle invernali fuori dall’isola. 

La mia prima esperienza è stata un contratto di tirocinio da 600 euro a Sassari, dalle cinque del pomeriggio alle due o tre di notte. Mi avevano preso in simpatia e vedevano che lavoravo sodo, per questo mi veniva chiesto di aiutarli in altre mansioni extra. Ero contento che riconoscessero la mia buona volontà, ma intanto lavoravo di più e lo stipendio rimaneva lo stesso.

La mia esperienza peggiore invece è stata in Costa Rei, nella costa sud ovest della Sardegna: era un ambiente lavorativo molto stressante e con dei ritmi insostenibili, ho retto solo 20 giorni. Fortunatamente dopo qualche anno come stagionale crei una rete di contatti e riesci a informarti su quali sono i posti che pagano bene e offrono delle gratificazioni professionali, perché esistono anche dei ristoratori virtuosi. Invece chi è alle prime armi si muove un po’ alla cieca e avrà molte più probabilità di incappare nelle strutture che si approfittano dei dipendenti.

Ho anche lavorato in nero: in caso di controlli dovevo rapidamente togliermi la maglietta e uscire dal retro, oppure dire che ero al primo giorno di prova.

Per chi come me lavora in sala i problemi sono solitamente gli stessi, si assume meno staff di quanto sarebbe necessario, pertanto si lavora costantemente sottodimensionati, ti ritrovi a fare il tuo lavoro e quello di un altro collega che non esiste. In più i contratti non rispecchiano mai le reali mansioni, magari vieni assunto come garzone o stagista ma le tue responsabilità saranno sempre maggiori. 

Ho anche lavorato in nero: in caso di controlli dovevo rapidamente togliermi la maglietta e uscire dal retro, oppure dire che ero al primo giorno di prova. In tutti questi anni non ho mai visto nessuna ispezione. Esistono gli strumenti per denunciare queste irregolarità, ma poi diventi un piantagrane e non ti assumerà più nessuno.

Nella generazione dei miei genitori tanti hanno campato di stagioni estive, accettando spesso condizioni lavorative ingiuste. Ma tra gli stagionali della mia età vedo sempre più insofferenza, c’è un limite a ciò che siamo disposti ad accettare. Ora prima di scegliere dove andare a lavorare chiedo sempre un contratto preliminare e faccio mettere tutto nero su bianco: non esiste più di mettersi d’accordo telefonicamente, come invece preferirebbero alcuni imprenditori. 

*Alcuni nomi sono stati cambiati su richiesta di intervistate e intervistati per riservatezza.

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