Retroviridae - Scheda virologica e approfondimenti

2022-07-15 18:44:10 By : Ms. Zoey Wu

La famiglia dei Retroviridae è composta da virus aventi il genoma formato da due molecole di RNA a singolo a filamento a polarità positiva di 7-10 kilobasi, con capside a simmetria icosaedrica e provvisti di envelope di 100-120 nm di diametro (Figura 1); il nome è dovuto alla presenza dell’enzima trascrittasi inversa (o DNA polimerasi RNA dipendente), che permette di sintetizzare il DNA dall’RNA. La loro scoperta, infatti, ha contraddetto il dogma centrale della biologia molecolare secondo cui dal DNA si crea l’RNA, dal quale vengono generate le proteine (DNA > RNA > proteine); il processo contrario era ritenuto inverosimile.

La scoperta della trascrittasi inversa avvenne nel 1970 grazie a due biologi americani, David Baltimore e Howard Martin Temin; essi giunsero a tale rivelazione studiando alcuni virus oncogeni a RNA (il virus di Rauscher e il virus del sarcoma di Rous), e non solo dimostrarono che la trascrittasi inversa era in grado di formare l’RNA dal DNA (retro-trascrizione), ma che i virus esprimenti tale enzima riuscivano a incorporare il loro genoma in quello della cellula ospite. I due scienziati pubblicarono il loro lavoro sulla rivista Nature e nel 1975 ottennero il premio Nobel per la medicina.

Il genoma dei Retroviridae contiene tre sequenze geniche distintive che garantiscono lo svolgimento dei processi fondamentali per la sopravvivenza del virus:

Questi geni sono fiancheggiati dalle sequenze LTR (Long Terminal Repeat), le quali rappresentano il promotore e il segnale di poliadenilazione (Fig. 2).

Alcuni Retroviridae, quelli più complessi, possiedono ulteriori geni:

Dominio              Riboviria

Regno                  Paramavirae

Phylum                Artverviricota

Classe                  Revtraviricetes

Ordine                 Ortevirales

Famiglia              Retroviridae

La famiglia dei Retroviridae comprende sette generi, ossia Alpha-retrovirus (virus della leucosi aviare, virus del sarcoma di Rous), Beta-retrovirus (virus del tumore mammario del topo), Gamma-retrovirus (virus della leucemia murina, virus della leucemia felina), Delta-retrovirus (virus della leucemia bovina, virus umano linfotropo delle cellule T o HTLV), Epsilon-retrovirus (virus del sarcoma dermico di Walleye), Lentivirus (virus di immunodeficienza umana o HIV, virus di immunodeficienza delle scimmie o SIV) e Spumavirus (virus schiumoso di Simian).

In origine erano suddivisi in tre sottofamiglie a seconda della patogenicità:

La replicazione dei Retroviridae, rappresentata in Figura 3, si realizza in questo modo: nel momento in cui i virus entrano in contatto con una cellula, interagiscono con i recettori di membrana tramite le glicoproteine del pericapside. Per esempio, l’HIV utilizza la proteina gp120 per legarsi a CD4 e CCCR5 sui linfociti T CD4, mentre l’HTLV-1 impiega la proteina gp46 per congiungersi a NRP-1 (neuropilina 1), GLUT1 (trasportatore ubiquitario del glucosio) e HSPG (eparan solfato) espressi sui linfociti T CD4. Successivamente avviene la fusione tra l’envelope virale e la membrana plasmatica, e il capside virale entra nella cellula ospite. Nel citoplasma il virus subisce lo scapsidamento (uncoating) e rilascia l’RNA; la trascrittasi inversa, contenuta nel capside, sintetizza un filamento di DNA complementare (cDNA), l’RNA viene degradato e si compie la replicazione del cDNA. Nel caso dell’HIV il processo che segue la fusione envelope-membrana è leggermente diverso: l’HIV utilizza una proteina cellulare chiamata trasportina 3 affinché il capside venga trascinato a livello del nucleo, nel quale inietta l’RNA attraverso i pori nucleari. Per tale ragione, la distrofia muscolare dei cingoli 1F, causata dalla mutazione del gene codificante per la trasportina 3, rende immuni all’infezione.

In ogni caso, una volta conclusa la genesi dei due filamenti di cDNA, questi vengono integrati nel genoma della cellula ospite, grazie all’intervento dell’enzima integrasi; si forma quindi il provirus (Fig. 4), che può rimanere latente per periodi di tempo variabili (nel caso dei Lentivirus si parla di periodi lunghi).

Sfruttando l’apparato trascrizionale della cellule ospite, il provirus viene trascritto in mRNA dall’RNA polimerasi II, di cui poi è trasportato nel citoplasma dove si verifica la traduzione in proteine funzionali da parte dei ribosomi cellulari. Il virus effettua l’assemblaggio del capside e del pericapside mediante l’enzima proteasi. Le proteine che fanno parte dell’envelope (di superficie e transmembrana), dopo la glicosilazione nell’apparato di Golgi, sono traslocate sulla membrana plasmatica. A questo punto i nuovi virioni escono dalla cellula per gemmazione, sottraendo una porzione della membrana cellulare che formerà l’envelope.  

Alcuni Retroviridae sono in grado di indurre la crescita tumorale (per esempio il virus del sarcoma di Rous o il virus del tumore mammario del topo) mediante l’attivazione di proto-oncogeni che sono incorporati nel DNA provirale, oppure attraverso l’alterazione, e la conseguente attivazione, dei proto-oncogeni cellulari. Il virus del sarcoma di Rous contiene il gene v-Src, il quale scatena la formazione della neoplasia; nel 1979 J. Michael Bishop e Harold E. Varmus scoprirono nelle cellule un gene strutturalmente simile, C-src (Proto-oncogene tyrosine-protein kinase), che probabilmente era quello che subiva più mutazioni con l’inserzione del provirus virale. I virus non trasformanti possono inserire casualmente il loro DNA nei proto-oncogeni, compromettendo l’espressione di proteine che regolano il ciclo cellulare (p53, p21, p27).

Una caratteristica della trascrittasi inversa è la mancanza dell’attività di proofreading, cioè la correzione degli errori che accompagnano la sintesi del DNA (per esempio, errori di appaiamento tra le basi azotate). A causa di tale mancanza, i Retroviridae accumulano molteplici mutazioni nel corso della replicazione, e ciò è alla base della resistenza ai farmaci antivirali e della difficoltà nel creare dei vaccini efficaci.

In questa parte dell’articolo dedicata alle malattie causate dai Retroviridae, ci si focalizzerà prevalentemente su quelli patogeni per l’essere umano, ovvero HIV e HTLV.

Partendo dall’HIV, si trasmette attraverso il sangue, il liquido seminale, le secrezioni vaginale e dalla madre al feto durante il parto, e ne esistono due sierotipi, ossia HIV-1, diffuso in ogni parte del mondo, e HIV-2, che si trova specialmente in Africa e in Sud America. Sappiamo benissimo che l’HIV è l’agente eziologico della sindrome di immunodeficienza acquisita (AIDS), un’infezione cronica e progressiva della durata di 8-12 anni, caratterizzata da una graduale distruzione di un tipo di cellule immunitarie che raffigurano i “registi” dell’immunità, cioè i linfociti T CD4. Questi, mediante il rilascio di segnali come le citochine, attivano i linfociti B, i macrofagi, i linfociti T citotossici (CD8). Il loro annichilimento conduce a una grave compromissione del sistema immunitario con conseguente maggiore suscettibilità alle infezioni e ai tumori letali (carcinomi e linfomi), e insorgenza di infezioni opportunistiche (Aspergillosi invasiva, Candidosi orale, Toxoplasmosi, Criptococcosi, Tubercolosi, Sarcoma di Kaposi, infezioni da Citomegalovirus, Herpes simplex e Varicella Zoster).

L’infezione da HIV è divisa in quattro fasi:

Passando all’HTLV, di questo virus esistono cinque sierotipi (I, II, III, IV e V), ma quelli più conosciuti sono HTLV-1 e HTLV-2, i quali presentano una diversa distribuzione geografica e un tropismo cellulare dissimile. Il primo prevale in Giappone sud-occidentale, Caraibi, Stati Uniti d’America, Italia meridionale, Africa sub-sahariana e tra i tossicodipendenti in tutto il mondo, e infetta principalmente i linfociti CD4. Il secondo, invece, è diffuso maggiormente tra le popolazioni dei nativi americani e tra i tossicodipendenti in Europa e negli USA, e attacca i linfociti CD8.

L’HTLV si trasmette per contatto sessuale, attraverso il sangue, mediante l’uso di droghe che si iniettano e per via perinatale. Tuttavia, a differenza dell’HIV, la propagazione da un individuo all’altro è più difficile, in quanto per favorire l’infezione è necessario il contatto tra un linfocita infetto e un linfocita attivato; tale interazione forma una “sinapsi virale” che consente il trasferimento del genoma virale dalla prima alla seconda cellula. L’unione è mediata da LFA1 (Lymphocyte Funcion-associated Antigen 1) e ICAM, mentre la proteina Tax favorisce la creazione del centro di organizzazione microtubulare (MTOC) (Fig. 5).

L’HTLV-1 è responsabile di varie malattie:

Nonostante sia classificato come virus oncogeno, l’HTLV-1 non esprime un gene oncogeno (v-onc). Il probabile meccanismo che conduce alla trasformazione tumorale delle cellule è connesso con la proteina Tax, che è in grado di stimolare la trascrizioni di geni cellulari implicati nella proliferazione dei linfociti T, tra cui il proto-oncogene e fattore di trascrizione Fos, i geni codificanti per l’interleuchina 2 (fattore di crescita dei linfociti) e il suo recettore, e il gene del fattore di crescita mieloide (GM-CSF). In aggiunta a ciò, inibisce p16/INK4, un regolatore del ciclo cellulare, attiva la ciclina D, un induttore della proliferazione, e il fattore di trascrizione NF-kB. Quest’ultimo regola molteplici geni della sopravvivenza cellulare e geni antiapoptotici.  

L’HTLV-2, che è meno frequente rispetto al sierotipo 1, è collegato a problemi polmonari, malattie neurologiche, artriti, asma, dermatiti e alla leucemia a cellule capellute. Questa malattia del sangue è così chiamata a causa della forma dei linfociti aventi un margine irregolare dovuto a estroflessioni citoplasmatiche; è caratterizzata da anemia, trombocitopenia, monocitopenia, infiltrazione del midollo osseo, della milza e del fegato. Tuttavia, è una patologia indolente per la quale il trattamento può non essere necessario per mesi o anni dalla diagnosi.

Quando si ha un sospetto di infezione da HIV e HTLV, è possibile effettuare la diagnosi mediante indagini sierologiche basate sul saggio di screening immunoenzimatico (ELISA). Se il risultato positivo, si esegue il test di conferma mediante Western blot ricercando gli anticorpi specifici per le proteine virali; nel caso dell’HIV, bisogna considerare che gli anticorpi contro le proteine del capside (p24, p17, p55) compaiono prematuramente, ma nelle fasi avanzate diminuiscono, mentre invece gli anticorpi contro le proteine del pericapside (gp120, gp41, gp160) si mantengono.

Sempre attraverso un test immunoenzimatico, si possono individuare gli antigeni virali, come la proteina del capside p24 dell’HIV, che indica una replicazione attiva.

Un ulteriore approccio diagnostico è l’analisi del genoma virale mediante la reazione a catena della DNA polimerasi (PCR). Per il monitoraggio della terapia dell’HIV, si impiega la PCR quantitativa (Real Time PCR) oppure la ricerca dell’RNA virale tramite la Retro Transcription PCR (RT-PCR).

Per l’infezione da HIV il trattamento si basa su una combinazione di farmaci chiamata HAART (trattamento antiretrovirale altamente reattivo) in cui sono inclusi inibitori della fusione che impediscono al virus di legarsi al corecettore CCR5 (Maraviroc), inibitori nuclesidici della trascrittasi inversa (Lamivudina, Azidotimidina), inibitori non nuclesidici della trascrittasi inversa (Nevirapina), inibitori della proteasi (Saquinavir) e inibitori dell’integrasi (Raltegravir).

Per quanto concerne l’HTLV, i possibili approcci terapeutici sono la Prosultiamina (un derivato della vitamina B1 che induce l’apoptosi delle cellule infette, riducendo la carica virale e i sintomi), l’Azacitidina (un analogo della citosina che inibisce la metilazione del DNA e si integra nel DNA delle cellule ematopoietiche provocandone la morte), il Tenofovir disoproxil (un inibitore della trascrittasi inversa usato anche per l’AIDS e l’epatite B cronica), la Cefarantina (un alcaloide antiinfiammatorio presente nella pianta Stephania cepharanta), l’interferone-alfa, considerato in Giappone la cura standard per i pazienti con paraparesi tropicale spastica (tuttavia, i benefici a lungo termine sono modesti e gli affetti avversi sono frequenti).

Sia nella ricerca biomedica che nella terapia delle malattie genetiche, i Retroviridae raffigurano una tipologia di vettori usati per modificare il genoma delle cellule mediante integrazione nei cromosomi. Per quanto riguarda il trattamento delle malattie genetiche (ma anche dei tumori), su cui ci si concentrerà in questa parte, si parla di terapia genica somatica (cioè su cellule somatiche), i cui scopi sono molteplici:

La terapia genica, però, presenta alcuni problemi, tra cui la disponibilità dei vettori che possono racchiudere quantità idonee di materiale genetico, il raggiungimento delle cellule bersaglio, la durata (la possibilità di introdurre il DNA terapeutico in modo stabile e risolutivo), la risposta immunitaria (poiché si introduce materiale esogeno che esprime determinati epitopi), la tossicità (il vettore può scatenare una risposta infiammatoria aberrante), e la presenza di malattie multigeniche (in cui ci sono più geni mutati).

Dal punto di vista pratico può essere eseguita con due diverse modalità:

I Retroviridae impiegati nella terapia genica sono i Gamma-retrovirus e i Lentivirus. La creazione dei vettori retrovirali si fonda su un procedimento specifico: innanzitutto, i geni Gag, Pol ed Env vengono sostituiti con la sequenza di interesse, il costrutto genico viene poi inserito nelle cosiddette cellule eucariotiche di “packaging” (“impacchettamento”), ovvero cellule che forniscono le proteine virali per la formazione del capside e la maturazione dei vettori. Queste linee cellulari vengono trasfettate con i geni Gag, Pol ed Env, per permettere l’impacchettamento dei vettori (Fig. 7).

L’impiego di questi tipo di vettori ha vantaggi e svantaggi. I vantaggio sono l’alta efficienza di inserimento del gene, l’integrazione stabile nel genoma delle cellule ospiti, la facilità di manipolazione del genoma, i titoli cospicui di virus ricombinante e l’ampio tropismo di infettività attraverso l’uso di virus anfotropici, ovvero che hanno un tropismo per più tipi di cellule; un esempio è il Molony-Mouse Leukemia Virus, che infetta cellule umane e murine, e tale proprietà consente la sperimentazione pre-clinica nei modelli animali. Gli inconvenienti sono la difficoltà nel controllo dell’infezione con il rischio di generare virus ricombinanti, la capacità di infettare solo cellule proliferanti (tale problema si risolve usando i Lentivirus, che possono infettare anche cellule quiescenti), l’integrazione casuale nel genoma dell’ospite (rischio di carcinogenesi), le dimensioni ridotte del costrutto genico che possono essere contenute nel vettore (8-10 kb) e la reazione immunitaria da parte dell’ospite.

Il primo trial clinico di terapia genica con i Retrovidae risale al 1995 e riguarda l’immunodeficienza combinata grave ADA-SCID, una malattia autosomica recessiva causata dalla mutazione del gene codificante per l’enzima adenosina deaminasi (ADA), coinvolto nel catabolismo delle basi puriniche durante la maturazione dei linfociti T e B. Se il gene è mutato, il conseguente accumulo di metaboliti tossici delle purine comporta la distruzione dei linfociti. In questo trial venne effettuata la trasfezione dei linfociti B con il gene wild-type dell’adenosina deaminasi; la prima paziente trattata non ebbe un beneficio eclatante, perché i linfociti, essendo cellule già differenziate, hanno un’emivita breve. Anni dopo ci fu una svolta grazia a due studi, diretti presso l’Hadassah Hospital di Gerusalemme e l’Istituto Telethon San Raffaele per la Terapia Genica (SR-Tiget), i quali ottennero dei risultati migliori utilizzando lo stesso tipo di approccio ma con cellule staminali ematopoietiche (CD34), associando la somministrazione di un farmaco mielosoppressivo, il busulfan, che crea una nicchia nel midollo osseo, al fine di dare spazio all’espansione delle cellule modificate che vengono reintrodotte. In seguito all’infusione di queste cellule, la conta dei linfociti era decisamente incrementata e le funzioni immunitarie erano migliorate; i successivi trial clinici portarono allo sviluppo dello Strimvelis e alla sua autorizzazione nel 2016.

Lo stesso approccio è stato applicato alla SCID X-linked, ossia la SCID dovuta alla mutazione del gene codificante per la subunità gamma del recettore dell’interleuchina 2, mappato sul cromosoma X; questa mutazione conduce a una mancata maturazione dei linfociti T, in quanto l’IL-2 è il loro fattore di crescita. Nel 2000 un gruppo di ricercatori francesi prese dei pazienti di varie età, infettò le cellule staminali ematopoietiche CD34+ con un Gamma-retrovirus contenente il cDNA del gene della subunità gamma dell’IL-2R e reintrodusse le cellule nei pazienti. Ci fu un certo successo clinico all’inizio, ma in seguito quattro dei nove pazienti trattati svilupparono una forma leucemica a causa della mutagenesi inserzionale, cioè il retrovirus si era integrato a livello del promotore di un oncogene, LMO2 (regolatore dell’angiogenesi), provocando un’attivazione aberrante. Tale esito negativo fece bloccare i trattamenti relativi alla terapia genica per questa patologia. Lo stesso gruppo di ricercatori, nel 2010, creò un altro retrovirus, SIN-gamma C, in cui erano state inattivate le sequenze enhancer (responsabili dell’overespressione dell’oncogene) spostando il promotore del gene IL2RG sotto il controllo del promotore del fattore umano di allungamento 1α, e riuscendo così ad attenuare il fenomeno dell’overespressione aspecifica.

Nel 2010, un altro gruppo di ricerca italiano, coordinato da Alessandro Aiuti (professore di pediatria e vicedirettore dell’SR-Tiget), utilizzò i vettori lentivirali per curare altre due malattie genetiche, cioè la leucodistrofia metacromatica e la sindrome di Wiskott-Aldrich. La prima è una malattia da accumulo lisosomiale neurodegenerativa dovuta alla mutazione del gene codificante per l’enzima arilsulfatasi A, con conseguente deficit nel metabolismo dei solfatidi, che si accumulano nella guaina mielinica, nel fegato, nella cistifellea, nei reni e nella milza provocando problemi cognitivi e neurologici. La seconda è un’immunodeficienza dovuta alla mutazione del gene WAS, che codifica per una proteina del citoscheletro espressa nelle cellule ematopoietiche, cioè WASP. Questa è importante per la polimerizzazione dell’actina citoscheletrica con conseguente sviluppo degli pseudopodi e migrazione cellulare. In seguito alla mutazione, le cellule immunitarie non effettuano la chemiotassi nei focolai di infezione. L’applicazione della terapia genica con i vettori lentivirali diede dei risultati positivi per entrambe le patologie.

Per concludere l’articolo, si vuole fare un breve accenno ai retrovirus endogeni (ERV). Si tratta di sequenze di DNA che coincidono con il genoma di retrovirus che si sono integrati immutabilmente nel genoma cellulare, diventando quindi parti fisse dei cromosomi e comportandosi come geni che vengono ereditati secondo le leggi di Mendel. Si trovano in tutti i vertebrati, sono particolarmente abbondanti nei vertebrati dell’infraphylum Gnathostomata e comprendono l’8% del genoma umano. Il motivo per cui sono chiamati “endogeni” è perché sono presenti in tutte le cellule dell’organismo ospite, incluse quelle germinali. Normalmente gli ERV sono repressi a livello trascrizionale tramite metilazione o alterazione della struttura, oppure sono difettivi a causa di delezioni o mutazioni che bloccano la genesi di progenie infettante. Ma l’aspetto più rilevante è che raffigurano una sottoclasse di trasposoni (elementi di DNA non codificante che si muovono all’interno del genoma), ovvero i retrotrasposoni, dai quali, secondi i ricercatori, si sono evoluti i retrovirus.

C’è da sottolineare che negli animali vivipari avviene una cospicua produzione di ERV durante l’impianto dell’embrione, facendo supporre che giochino un ruolo importante nella tolleranza immunitaria gestazionale.

Alcuni studi hanno collegato gli ERV all’insorgenza di malattie autoimmuni, specie alla sclerosi multipla; è stata riportata un’associazione tra la sclerosi multipla e il gene ERVWE1 (codificante per le sincitina-1, una proteina di fusione cellula-cellula), che deriva dall’inserzione di un ERV. In aggiunta a ciò, nel 2004 sono stati individuati anticorpi anti-HERV (Human Endogenous Retroviruses) nei pazienti affetti da schizofrenia, nel cui liquido cerebrospinale sono stati riscontrati dei marcatori retrovirali in quantità quattro volte maggiore rispetto ai controlli. Ciò ha suggerito che l’infezione/riattivazione degli HERV possano innescare la malattia.

Infine, due gruppi di ricerca (uno di San Francisco, l’altro di Toronto) pubblicarono nel 2007 un articolo in cui descrissero la presenza di una risposta cellulo-mediata anti-HERV negli individui HIV positivi, suggerendo che questo virus stimoli l’espressione di HERV nelle cellule infettate.

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