Il piano iniziale di invasione del paese era fondato su una serie di premesse ideologiche ed operative che alla prova dei fatti si sono rivelate sempre più inconsistenti. Innanzitutto, la rapida conclusione del conflitto sulla base della combinazione tra la scarsa voglia di resistere da parte degli ucraini e la strapotenza della macchina militare russa. Il piano iniziale prevedeva la cattura del presidente Zelens’kyj già nelle prime ore delle operazioni, seguita dalla veloce presa di possesso del territorio da parte delle colonne corazzate ed autotrasportate attaccanti. Questo avrebbe causato la sottomissione istantanea del paese, privato da un lato di una guida efficace, e dall’altro impossibilitato a reagire, se non su iniziativa non coordinata dei comandanti sul campo. L’accettazione del nuovo status quo da parte dei cittadini ucraini, sulla base della loro pretesa identità russa, avrebbe fatto il resto.
Alla prova dei fatti, nessuna di queste condizioni si è verificata. Zelens’kyj è sfuggito alla cattura, è diventato la voce del suo paese a livello internazionale, e si è rafforzato come figura guida per i suoi compatrioti. Le forze armate e i cittadini ucraini hanno dato prova della loro volontà di resistere, tenendo il campo e tornando a frotte dall’estero per combattere per il proprio paese. Le truppe inviate ad invadere l’Ucraina si sono rivelate tutt’altro che strapotenti, gettando un’ombra sulla valenza della Russia come credibile attore militare globale al di là della capacità nucleare strategica.
Come altrove ricordato, quella che era nata come operazione strategica di Anschluss, è rapidamente diventata una battaglia tattica per il conseguimento di obiettivi sempre importanti, ma limitati. Tenendo conto del fatto che la linea del Dniepr, il fiume che taglia in due l’Ucraina, rimane il fronte di solidificazione strategica delle operazioni, la Russia sta completando l’acquisizione delle repubbliche autonomiste del Donbass e del Donetsk, nonché la saldatura delle stesse con la Crimea. Un’operazione che prevede la distruzione – ormai raggiunta – di ogni residua resistenza nella città portuale di Mariupol, e l’acquisizione dell’intera linea di costa sul Mar Nero fino alla foce del Dniepr. Molto meno consistente appare allo stato la possibilità di un assalto a Odessa, l’altro punto portuale sul Mar Nero, dato che prevederebbe un attacco dal mare di vasta portata, e la contemporanea rottura della linea del Dniepr. Come detto, uno scenario del genere porrebbe alternativamente le basi per una conquista totale dell’Ucraina a partire da sud; o per l’isolamento dal mare della parte residua del suo territorio.
Se i vantaggi verosimili conseguiti da Putin sul campo sembrano evidenti, la situazione generale fa parlare invece di strategia suicida.
La Russia è in questo momento isolata da una parte del mondo – sbaglia chi, con ottica provinciale, confonde le sanzioni occidentali con la rimozione della Russia dalla carta geografica. La Cina, seppur con la solita, millenaria prudenza e compostezza, continua a mantenere attivi i rapporti, un po’ in chiave commerciale, un po’ in chiave geopolitica per trovare una sponda all’eventuale invasione di Taiwan. Non sarà quindi questo a dettare tempi e modalità di risoluzione dell’attuale crisi. Nel futuro a medio termine, anche l’Occidente troverà una composizione con la Russia, su basi ancora da definire.
Il suicidio consiste invece nell’aver rinfocolato questioni che porteranno il grande paese euroasiatico a peggiorare la propria posizione. Innanzitutto, la domanda di adesione alla NATO di paesi tradizionalmente non allineati, quali la Svezia e la Finlandia. Sebbene in termini numerici l’addizione sembri di poco conto, e da Mosca si sia fatto di tutto per minimizzarne la valenza, in realtà questo evento restringe i confini strategici della Russia.
Uno dei tradizionali scenari di guerra convenzionale che coinvolgesse la Russia prevede infatti la cosiddetta battaglia del GIUK Gap. Quest’ultima denominazione si riferisce alla necessità, per qualunque flotta proveniente da est, di superare lo sbarramento virtuale disteso tra Groenlandia, Islanda e UK – da cui l’acronimo GIUK – prima di poter guadagnare il mare aperto. L’adesione alla NATO di Svezia e Finlandia vuole invece dire che l’eventuale battaglia si sposterebbe verso quello che potremmo definire DEFISW Gap – Denmark, Finland, Sweden. La flotta baltica russa, acquartierata principalmente nell’area di Kaliningrad, dovrebbe affrontare le non disprezzabili capacità operative dei due nuovi membri NATO, in particolare la Svenska flygvapnet – l’aviazione svedese – che tradizionalmente vanta ottime capacità operative. E non è certamente un caso che Jonas Kjellen, analista militare dell’Istituto Svedese per gli Studi della Difesa, abbia dedicato nel febbraio dello scorso anno un corposo rapporto alle capacità della flotta baltica.
Oltre ad aver autolimitato i gradi di libertà di un’eventuale proposizione strategica navale, Putin ha ottenuto che tutti i paesi ex Patto di Varsavia e oggi NATO abbiano oggi buon gioco nell’alzare il livello di spesa militare in chiave difensiva, dato che della Russia di oggi non ci si può fidare. L’invasione dell’Ucraina ha mostrato la necessità, in chiave geopolitica e di politica interna, di rialzare il livello di attenzione sullo strumento militare, il quale era andato via via scemando negli ultimi decenni, complici le buone relazioni e l’opera di propaganda effettuata da pacifisti e quinte colonne russe – tra cui, in Italia, alcuni ben individuabili partiti.
Da ultimo, Putin ha fortissimamente minato il suo fronte domestico, che infatti vede emergere voci sempre più critiche all’interno dell’establishment. Il prolungamento del conflitto contrasta con la narrazione di una Russia militarmente forte, in grado di affermare il proprio ruolo del mondo e di condizionare le altrui decisioni. Il tentativo di affamare energeticamente l’Europa non sta funzionando, ed anzi sta spingendo il continente a riorientare le proprie scelte energetiche, come un’esplicita Ursula von der Leyen ha dichiarato circa una settimana fa.
In buona sostanza, la politica di aggressione di Putin ha avuto come risultato, a fronte della conquista di una parte poco significativa di territorio ucraino e di uno sbocco al mare meridionale, quella di peggiorare la situazione strategica generale e di porre le basi strutturali per un durevole accerchiamento militare e la perdita di una parte significativa del proprio export.
Nel 2006, ho avuto l’opportunità di assistere di persona ad un discorso dell’ex presidente degli Stati Uniti Bill Clinton. La parola magica di quel discorso fu interdipendenza. Il mondo di oggi si basa sulla costruzione ed il mantenimento di relazioni di interdipendenza tra i vari paesi. Gettare in questa rete di rapporti un vecchio approccio basato su concezioni strategiche da XX secolo rappresenta, come l’evidenza dei fatti dimostra, un suicidio politico e sociale.
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